DMC TRIATHLON 14>16 OTT 2016 - Lago di Garda | Laboratorio Endurance #ditipo1

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DMC … lo stato dell’arte della sperimentazione dal basso made in DNL!
a cura di Maurizio Sudano, endocrinologia Ospedale di Urbino

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Dopo lungo travaglio (vabbé, lunghetto), ecco il primo resoconto tecnico esteso partorito dallo staff DNL, basato in parte, ma non solo, sui dati raccolti al DMC Triathlon di Garda 2016.
Per capire il senso di questo lavoro bisogna però fare un “riassunto delle puntate precedenti”.
Il tutto era nato qualche anno fa sulla base del tormentone “quali sono, se ci sono, le linee guida su attività sportiva e diabete T1?”.
Il quadro lo conoscete già: molto terrorismo da parte delle società scientifiche tradizionali, pochi consigli che non andavano al di là del solito “misura la glicemia prima e dopo”, scarne indicazioni pratiche in caso di endurance vero, ecc.
Il tutto dominato dall’onnipresente terrore per l’ipoglicemia.
Nella migliore delle ipotesi all’atleta con DMT1 viene tuttora consigliato l’approccio “per tentativi ed errori”, governato il più delle volte dalla buona sorte e dalla volontà dell’interessato che da un approccio scientifico ponderato. La scusa è sempre quella della imprevedibilità e dell’assoluta soggettività delle risposte metaboliche.
Dopo un bel pò di discussioni, in ambito DNL si è deciso che l’approccio per tentativi ed errori, non appoggiato da verifiche sistematiche in condizioni reali, pur indispensabile, è troppo laborioso e spesso frustrante, ed è gravato da una eccessiva dose di improvvisazione.
L’idea di partenza era: anche con i modesti mezzi del DNL è possibile studiare il comportamento metabolico di un atleta, amatoriale e non, (sottolineo “atleta”, il passeggiatore della domenica rimane fuori da questi ragionamenti!) in modo da ottenere degli schemi di risposta relativamente standard e soprattutto PREVEDIBILI.
Il nodo cruciale è quello di raccogliere dati in situazioni realistiche di gara/allenamento e di inquadrarli con i metodi che la fisiologia dello sport conosce da ANNI. Eh già, fisiologia. Proprio questo è il nocciolo della questione.
In giro c’è qualcuno che ancora fatica a capire che le risposte metaboliche all’attività sportiva di endurance sono uguali per TUTTI, con o senza diabete.
Nel DMT1 la differenza sta ovviamente nell’impossibilità di una autoregolazione della produzione di insulina in risposta alle variazioni di glicemia. Malgrado ciò gli altri meccanismi di adattamento energetico sono conservati influenzando comunque l’andamento della glicemia e non c’è alcuna ragione scientifica per ignorarli.
Il primo embrione “scientifico” è nato dall’analisi dei dati ottenuti durante l’UTMB (170K 10000D+ 35H) corso da Cristian AGNOLI nel 2013. La scrupolosa registrazione dell’integrazione di carboidrati (CHO) durante la gara aveva permesso di rilevare come il Presidentissimo (leggi Cristian) aveva consumato CHO in quantità nettamente inferiori di un buon 40% a quelle consigliate (a prescindere) dalle cosiddette “linee guida”, ovvero 1 grammo di CHO per chilo di peso corporeo per ora di attività (gCHO/Kg/h), pur mantenendo profili glicemici corretti. Ovviemente la solita obiezione poteva essere “ma è solo UNO, è un caso speciale…”, e via cazzeggiando. Ma se ci si guarda attorno le cose non stanno così. I fisiologi dello sport sanno benissimo da un pezzo che le persone ben allenate “imparano” a risparmiare CHO durante la prestazione a favore dei grassi di riserva. E a chi (qualche collega all’antica…) si ostina a pensare che stiamo parlando di fenomeni “strani” dirò che i meccanismi di shift energetico CHO/grassi in corso di endurance sono antichissimi e non sono nati con la mania moderna per lo sport, ma fanno parte dell’eredità metabolica dei nostri antenati che si dovevano guadagnare da vivere correndo dietro a qualche bistecca a quattro zampe che se ne andava per la savana. Questa capacità, allenabile, è perfettamente conservata nell’atleta con DMT1.
Sta di fatto che dopo questa prima osservazione il test è stato ripetuto, con diverso spiegamento di forze, durante il DMC Triathlon dello scorso ottobre.
Cinque baldi atleti DNL si sono cimentati in un triathlon non competitivo (nuoto 2 km, bike 60 km, corsa 14 km) percorso in un tempo variabile da 3h34’01” (il più veloce) a 4h43’08” (il più lento). Questo il quantitativo di CHO/Kg/h consumati durante il test (è stato escluso dal calcolo la razione di recupero post-test, che era uguale per tutti):

Stefano 0,56 gr cho pro ora pro kg , Francesca Zi 0,43 cho pro ora pro kg , Francesca Ze 0,34 cho pro ora pro kg , Marco 0,79 cho pro ora pro kg , Matteo 0,45 cho pro ora pro kg

In soldoni l’integrazione è risultata inferiore dal 20 al 60% di quanto raccomandato, pur mantenendo profili glicemici percompetitivi accettabili, e senza l’ombra di una ipoglicemia. Stranezze degli atleti DNL? No. Recentemente dati simili stati osservati anche da altri gruppi sparsi per il mondo, segnalazioni, badate bene, sempre partite “dal basso” (cioé dagli atleti), tant’è che in un recente congresso internazionale si è affermato che “probabilmente il fabbisogno di CHO in corso di attività di endurance è effettivamente minore di quanto affermato in precedenza”, (soprattutto se gli atleti non sono alla ricerca della massima performance,ndr).
Un altro filone di “ricerca made in DNL” (termine un pò esagerato, ma ricordiamoci che ci stiamo muovendo in una terra di nessuno) è lo studio della “prevedibilità” delle risposte glicemiche allo sforzo. Proprio così, “prevedibilità”. A sentire qualcuno il problema dei problemi in corso di attività sportiva è l’ipoglicemia. Non importa se state correndo piano, forte, o così così, il destino ineluttabile della curva glicemica è correre verso il basso, a meno che non stiate “attenti”.
Per primo abbiamo voluto sfatare la credenza che l’andamento delle glicemie sia comunque al ribasso, indipendentemente dal livello di attività. Nel corso del Camp Mellito 3.0 in Toscana (ottobre 2014) abbiamo sottoposto un triatleta con diabete T1 di livello (Mangiarotti) ad un classico test incrementale massimale su protocollo del Marathon Center di Brescia. L’atleta era A DIGIUNO (orrore!) e ha mantenuto durante il test la sola infusione abituale di insulina basale con il microinfusore. Marco si è impegnato al massimo, ed è finito, così come volevamo, in piena soglia anaerobica, con un lattato salito a oltre 9,3 mmol. La glicemia, partita da un tranquillizzante 117 mg/dl, con microinfusore a velocità basale in azione, si è impennata a oltre 200 mg/dl in meno di 20’, accompagnata dal raggiungimento e superamento della soglia di Fcmax al 90%.
Sento già il guastafeste di turno che dice “sì vabbé, ma è un test massimale, poco indicativo di situazioni reali…”.
E allora parliamo di interval training, vi dicono niente queste parole? Sbaglio o è una modalità di allenamento che, in tutte le sue varianti, fa parte abituale della stagione di preparazione di un atleta che voglia partecipare anche solo alla maratona di Roccacannuccia? Nel corso di un interval training ben fatto è facile e doveroso finire fuori soglia, e come credete che vadano le glicemie? E’ quello che abbiamo voluto appurare durante il TUCMA di marzo 2016 a Francavilla. In quell’occasione abbiamo osservato il comportamento della glicemia in più atleti impegnati in un classico test di ripetute 4×1000, e, pensate un pò, abbiamo visto il bis di quanto osservato in Toscana (per il report dettagliato andate alla pagina del sito dedicata al TUCMA 2016). La cosa interessante era che tale andamento si ripeteva indipendentemente dal fatto che il test fosse fatto a digiuno o in fase post-prandiale: in quast’ultimo caso l’impennata glicemica era meno accentuata, complice la coda dell’insulina rapida pre-prandiale, ma era comunque ben visibile. Finite fuori soglia nel corso della vostra gara/allenamento preferito e sarete…in iperglicemia.
Ma l’obiettivo più ambizioso era e resta la “prevedibilità” dell’evento più temuto dall’atleta con DMT1, e da chi se ne occupa, ovvero l’ipoglicemia. Quando parliamo di sports di endurance l’ipoglicemia non è solo lo squilibrio fra l’insulinizzazione e l’assunzione di CHO, ma è anche il risultato di un ritmo di prestazione “sbagliato”, ovvero eccessivo in relazione al livello di preparazione del soggetto o a tipo e durata della prova atletica. Già, ma come si fa a capire qual è il ritmo giusto?
Un primo passo è stato quello di smitizzare i pericoli connessi all’allenamento a digiuno. Quest’ultimo non è uno stupido vezzo per dimostrare quanto siamo bravi a risparmiare CHO, ma un metodo di allenamento noto da anni, e che l’atleta con DMT1 può affrontare senza pericolo se fatto con criterio e in maniera “scientifica”.
Come ho ripetuto fino allo sfinimento, i meccanismi di adattamento energetico all’endurance sono uguali per tutti. Questo significa che se a digiuno si effettua un allenamento rigorosamente in soglia lipidica, la glicemia si muoverà poco o nulla, proprio perché il carburante preferenziale in questa situazione sono i grassi (trigliceridi) stivati nei muscoli e nel tessuto adiposo. E così la sessione di allenamento a digiuno è ormai un must dei campi DNL (dal 2011-2017 eseguito anche da 25-30 atleti di diversa “formazione” in contemporanea), dimostrando come sia assolutamente sicuro se effettuato in modo razionale e pianificato.
Il culmine è stato raggiunto in tal senso al DMC Triathlon di Garda dell’ottobre 2016 , quando un quintetto di atleti DNL si è sobbarcato una seduta più impegnativa: bici + corsa per un totale di un’ora e mezzo, il tutto il giorno successivo a una impegnativa prova di triathlon medio. Già potete immaginarlo, problemi zero? Direi di sì, anche se nessuno è perfetto!
In un caso si è reso necessario integrare cho nel pre e nel durante: il soggetto evidentemente non aveva ben recuperato la prova del giorno precedente, e visto il profilo basale volutamente immutato, aveva manifestato una maggiore sensibilità all’insulina. Dunque, ragionando su profilo glicemico, terapeutico e atletico l’atleta ha optato per assumere alcuni grammi di cho (il soggetto peraltro era anche quello che aveva più sofferto la prova del giorno prima).
Dunque la capacità di “sopportare” un allenamento lipidico in euglicemia è legato anche alla capacità del soggetto di meglio utilizzare i substrati FFA e alle capacità di recupero delle scorte di glicogeno muscolari in periodi di elevato impegno.
Ma che succede se, invece di effettuare un “semplice” allenamento a digiuno, l’atleta si cimenta in una prova più impegnativa? E’ possibile prevedere almeno entro certi limiti il trend della glicemia in situazioni di maggiore durata e carico? Qualche gruppo di ricerca serio ha già provato a rispondere a questa domanda, giungendo alla conclusione che la soglia di massimo consumo di glucosio si verifica a carichi intorno al 70-80% della VO2max. Interessante, peccato che queste osservazioni siano state fatte per lo più in laboratorio su bici stazionarie e mantenendo frequenze cardiache di lavoro stabilite con formule, e non in base all’effettivo grado di allenamento del soggetto. In questo modo sono saltati fuori dati contraddittori in cui alcuni soggetti sotto sforzo non mostravano alcuna tendenza a consumare più CHO poiché il “loro” 70% era del tutto fittizio, mentre in realtà avevano lavorato….in zona lipidica o giù di lì. Noi invece ci siamo detti: è possibile rilevare in condizioni realistiche, da campo, l’andamento della glicemia in funzione del ritmo della prova? Ovviamente non potevamo collegare gli atleti a un “clamp” che misura con precisione quanti CHO vengono utilizzati, sia perché il povero DNL non ce l’ha, sia perché o corri o sei attaccato alla macchina alla base del clamp. Però una buona approssimazione può essere raggiunta se PRIMA si stabiliscono le zone di lavoro degli atleti tramite un test di soglia fattibile ovunque, e POI li si sottopone ad una prova rilevando giudiziosamente frequenza cardiaca, glicemia, lattato, integrazioni ecc.
Ed è quello che abbiamo fatto! Quando? Sempre al DMC Triathlon sul Lago di Garda del 2016.
Durante lo stesso triathlon sopra citato gli atleti sono stati scrupolosamente monitorati. Ed ecco i risultati. Le zone di lavoro stabilite il giorno prima (lipidica, aerobico-lipidica, aerobico-glucidica, aerobica, aerobica/anaerobica) si sono sposate con precisione all’andamento delle glicemia. Chi ha mantenuto il ritmo della propria prova in soglia 1-2 (lipidica/aerobico-lipidica) ha mostrato l’ andamento più piatto, mentre con il passaggio alla zona 3 (aerobico-glucidica) si è registrato il primo decremento della glicemia. In sostanza se l’atleta stabilisce in fase di preparazione le proprie zone di lavoro può sapere sul campo, con un frequenzimetro da quattro soldi, cosa può aspettarsi di lì a poco e comportarsi di conseguenza. Non male….
Sapere se stiamo lavorando in determinate zone di intensità e consumi energetici ci permetterà di capire se è necessario integrare di più o di meno, e soprattutto se queste assunzioni di cho siano compatibili con risposte glicemiche accettabili e mantenimento del livello di performance desiderato.
Non finisce qui infatti. Sono in fase di riordino ed elaborazione i dati ottenuti questa volti in condizioni di gara gareggiata (=ricerca di massimizzazione della performance), ovvero durante il DMC Trail Running appena concluso 3-5 febbraio 2017).
Il maniacale e straripante Presidentissimo può ritenersi moderatamente soddisfatto… e lo staff medico e atletico è al lavoro per estrapolare suggestioni, conclusioni e spunti di riflessione